Morire di lavoro, in un romanzo

Da Rassegna.it di Fabrizio Ricci

Altim Popi non é un personaggio di tendenza. Anzi, Altim Popi é un non personaggio. Il nome e le origini albanesi potrebbero far pensare a qualche criminale spietato di quelli che vanno per la maggiore, un gangster con l’accento dell’est, freddo e senza scrupoli. Invece Altim é solo un muratore, sporco di cemento. Di lui non sappiamo molto altro, perché la sua parte nella storia non gli consente di dirci di più. D’altra parte generalmente é proprio così che vanno le cose, anche nella realtà: di chi muore sul lavoro non si sa quasi niente, spesso nemmeno il nome. 
«Altim», disse Mario, avvicinandosi.
«Buongiorno», rispose lui, sorridente.
«Ho parlato con Tinelli, e dice di andare avanti. Se tu cominci a salire io ti raggiungo tra cinque minuti, ché adesso devo dire un paio di cose al padrone di casa».
«Va bene», disse Altim. Si scaldò le mani strusciandole tra loro, afferrò la cazzuola e il secchio con la calce che aveva impastato appena era arrivato e si diresse verso il montacarichi. Salendo sulla pedana incrociò lo sguardo di Goran, affacciato dal bordo del tetto, che lo salutava con un cenno della mano.

Un operaio cade da un’impalcatura e finisce con la schiena su un palo. Comincia da qui “L’uomo che manca”, il nuovo romanzo di Giovanni Dozzini per Lantana (158 p.) che racconta in maniera avvincente una storia insolita per la narrativa italiana. Una storia di “ultimi e penultimi”, come la definisce l’autore. C’è appuntoAltim Popi, l’operaio edile albanese “infilzato come un pollo allo spiedo” che lotta tra la vita e la morte su un letto di ospedale. Ci sono sua moglie, Jonilda, che lo assiste senza sosta seduta nel corridoio del reparto, come fosse una statua di sale, e poi il piccolo Igli, figlio che non ha più l’accento del padre e del fratello, perché quella albanese, come spiega l’autore, è ormai una comunità a “metà del guado”, arrivata da abbastanza tempo per non essere più ai margini, ma al tempo stesso ancora legata ad una cultura molto diversa dalla nostra, antica per certi versi.

«Quella donna non si è mai schiodata. Tutto il giorno sveglia, con quell’occhio cieco e le mani incrociate sulle gambe. Non ha detto quasi niente. Ogni tanto si alza e va a vedere dalla vetrata, e quando arriva l’orario della visita lei si fa trovare già bell’e pronta, con tutto quello che bisogna mettersi addosso e si fionda dentro dal marito. All’inizio chiedeva di entrare anche fuori dall’ora stabilita, ma sempre garbatamente, senza alzare la voce né mugolare. Poi ha capito, e adesso non lo fa più. Una volta ogni due ore, più o meno, si alza e cerca l’infermiera più vicina, e domanda se c’è qualcosa di nuovo da sapere. Quindi appiccica la faccia al vetro, e se ne sta lì a guardare per un po’, prima di tornarsene sulla sua sedia. Dà l’impressione di non potersi stancare mai».

Ma poi ci sono anche i borghesi italiani. Il giovane avvocato De Falco, che deve difendere il datore di lavoro, e la dottoressa Marta Dragone impegnata a tenere in vita un uomo che sa essere condannato a morire. Figure che, da potenziali elementi di contorno, diventano invece protagonisti del romanzo, con le loro contraddizioni, con i loro i dubbi e che con le loro angosce.

Infine, C’è l’uomo che manca, una voce, un flusso di coscienza, che solo alla fine del romanzo, con un colpo di scena degno dei migliori gialli, assumerà un’identità definita.

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