Dopo la ThyssenKrupp

Da Peacereporter

Marco Revelli, sociologo, studioso dei processi produttivi, ha analizzato per anni la fabbrica e la sua trasformazione con Torino come punto d’osservazione.
A lui chiediamo un commento a freddo sulla sentenza ThyssenKrupp.
Per il rogo che la notte del 6 dicembre 2007 uccise sette operai, la corte d’assise di Torino ha condannato a sedici anni e mezzo per “omicidio volontario” l’amministatore delegato Harald Espenhahn. Altri dirigenti sono stati condannati a diverse pene per “omicidio colposo“.

Si dice che questa sentenza farà storia, e sarà un importante precedente per la giurisprudenza italiana, perché la Procura di Torino ha deciso per la prima volta di procedere per omicidio volontario e non, come si è sempre fatto nei casi di infortuni sul lavoro, per omicidio colposo.
Come si inquadra in un contesto come quello torinese e italiano che sembrava segnato dal referendum di Marchionne?

La sentenza è davvero storica perché permette un salto di qualità nella considerazione sociale degli omicidi bianchi, che finora erano ritenuti “non voluti” dal datore di lavoro, come gli incidenti stradali provocati da guidatori sobri. Si afferma un nuovo punto di vista: chi fa lavorare le persone in condizione di rischio evidente, ne assume poi la responsabilità oggettiva in caso di incidente.
È in controtendenza rispetto al contesto odierno. Tutto sembrerebbe andare in altra direzione, compreso il modo in cui i media hanno affrontato il referendum alla Fiat. L’impresa viene assunta con le priorità e l’autorità che un tempo erano assegnati agli oggetti sacri o alla sovranità statale.
In questo caso non è stato così perché ciò che è accaduto alla Thyssen è di una gravità straordinaria, uno di quegli eventi che aprono una breccia nella pigrizia prevalente: per il modo in cui la strage è avvenuta, per come è stata documentata, per l’agonia delle vittime, per la possibilità di ascoltare addirittura le voci dei protagonisti e anche perché è avvenuta a Torino, dove la memoria del lavoro continua ad avere una traccia profonda.

Come ha reagito Torino?

Una Torino “diversa” si era rivelata nelle settimane del braccio di ferro tra operai di Mirafiori e Marchionne. Lì davvero respiravi in città un sotterraneo senso di solidarietà nei confronti degli operai, il riconoscimento della loro dignità contro l’asservimento che voleva la Fiat. Non era così scontato. Oggi invece domina l’opacità di una campagna elettorale stanca, lontana dal sociale.
Forse si è arrivati a questa sentenza anche perché la proprietà della Thyssen è straniera.

Infatti c’è da chiedersi se una sentenza del genere sarebbe stata possibile anche contro la Fiat.

Tutto sarebbe stato molto più complicato, soprattutto perché gli organi d’informazione e i vari poteri avrebbero creato difficoltà ai giudici nell’esprimersi con tale nettezza.
Va detto che la sentenza è sacrosanta: dice a tutti che l’Italia non è la Sun Belt, non siamo in un distretto periferico dell’Europa in cui ci si può permettere di far lavorare la gente in condizioni che nel proprio Paese non sarebbero accettabili. Non siamo una colonia della Germania.

A volte però sono gli stessi lavoratori a ritenere la giustizia controproducente. C’è anche chi ha detto: “Ecco, bell’affare, adesso chiudono tutto e portano la produzione altrove”.

È l’altra metà del cielo: la voce di un mondo del lavoro che ha subito la sconfitta sociale dell’ultimo quarto di secolo ed è stata posta in condizioni di lavoro servile. Si è assuefatta alla perdita dei diritti e pensa alla sopravvivenza come accettazione di una realtà ineluttabile in cui il rapporto di forza è così asimmetrico che non resta che piegare la testa. Le organizzazioni sindacali che hanno sottoscritto l’accordo della Fiat voluto da Marchionne, che spoglia i lavoratori dei loro diritti, riflettono lo stesso punto di vista: “Primum vivere“. Solo che qui si muore. È il paradosso imposto da Marchionne: “Accetta di lavorare come uno schiavo o non lavorerai per niente”.

Dal punto di vista giuridico, è stata accettata la tesi della “negligenza consapevole” di chi, dovendo investire sulla sicurezza antincendio, non lo ha fatto, “accettando il rischio” di un incidente. Ci sono vicende in corso su cui la sentenza di Torino potrebbe influire?

Sicuramente nel caso dell’amianto, infinitamente più esteso di quello della Thyssen e tutt’ora aperto. In quel caso, la sentenza di Torino può avere una ricaduta a pioggia. Esistevano ricerche che dimostravano le conseguenze dell’esposizione all’amianto e i dirigenti hanno continuato la produzione a lungo, esponendo a rischi mortali non solo i lavoratori, ma anche la popolazione attorno alle imprese.

Dopo questa sentenza, il sindacato può passare di nuovo all’offensiva sul piano dei diritti?

Bisognerebbe innanzitutto che esistessero ancora dei sindacati. Oggi ci sono solo dei settori del mondo sindacale che fanno sindacato: la Fiom, la Cgil – in modo alternante – continuano a pensare che il proprio compito sia quello di tutelare i lavoratori sul posto di lavoro, negoziando tutte le condizioni in cui il lavoro viene svolto. Una parte del mondo sindacale ha invece considerato “naturali” le scelte delle imprese e fornisce servizi ai propri iscritti senza negoziarne le condizioni di lavoro.
La sentenza dovrebbe rafforzare tutti coloro che vogliono tutelare i lavoratori sul luogo di lavoro, in modo preventivo e non dopo che la catastrofe è avvenuta. Questo perché chiama in causa direttamente tutti coloro che hanno a che fare con il problema della sicurezza.

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