Un talento sprecato. E’ quello delle donne italiane che, anche se laureate o istruite, scelgono spesso di rinunciare al lavoro quando nasce un figlio. Il motivo? Principalmente l’elevato costo di cura dei figli, che rende conveniente non lavorare.
Lo dimostra da uno studio (‘Female education and employment, making the
most of talents’) di Alessandra Casarico e Paola Profeta di
Econpubblica (il Centro di ricerche sul settore pubblico della Bocconi) presentato a Milano nel corso del workshop ‘Institutions and the gender dimension’, organizzato dall’Università Bocconi. La ricetta per incrementare il tasso di occupazione femminile è, dicono le studiose, spesa
pubblica più alta per le famiglie, in particolare per la prima
infanzia, e diffusione a tappeto di forme di conciliazione come il part
time. Una combinazione che ha effetti benefici anche
sull’istruzione femminile. Le ricercatrici hanno sottolineato che in
Svezia, dove la percentuale di lavoro part time rispetto al lavoro
totale è del 23%, la percentuale di donne tra i 25 e i 64 anni con
un’istruzione superiore o universitaria raggiunge l’85%. In Italia, dove il part time è il 12,7%, tale percentuale è del 48%. Anche mettendo in relazione la percentuale
di spesa pubblica per le famiglie con i livelli di istruzione e impiego
femminili, lo studio evidenzia, tendenzialmente, un migliore rapporto
là dove tale spesa è più elevata. Ne sono un esempio Svezia e Danimarca dove rispettivamente il 3,5% e il 4% del pil sono destinati a questo tipo di sostegno economico
e dove la percentuale di donne con istruzione superiore è dell’85% e
del 79%. In entrambi i Paesi, la percentuale di donne con istruzione
superiore occupate supera il 75%. In Italia e in Spagna, due tra i
paesi in cui le famiglie ricevono meno trasferimenti, poco più dell’1%,
le donne più istruite non raggiungono il 50%, mentre quelle istruite e
occupate sono il 65% e il 61%.
”E’ noto -ha spiegato Paola Profeta- che in paesi come l’Italia il tasso di occupazione femminile è molto basso, del 46,7%
rispetto a un obiettivo di Lisbona del 60%. Meno noto è che in questi
paesi donne con istruzione superiore o universitaria spesso non
lavorano, a differenza degli uomini e a differenza di quanto avviene
per esempio nei paesi scandinavi”. Questo accade, secondo il modello
elaborato dalle due studiose, perché quando le donne devono decidere se
istruirsi, non hanno un’informazione completa sui costi ai quali
andranno incontro nella cura dei loro figli, nel momento in cui
diventeranno mamme. ”Esistono quindi delle donne -continua Alessandra
Casarico- che, una volta scoperto il costo di cura dei figli, se questo
risulta molto alto, pur essendosi istruite ritengono conveniente non
lavorare”. E la loro assenza dal mercato del lavoro, sottolineano
Casarico e Profeta, ”genera uno spreco di talenti e una riduzione
dell’output rispetto a quello potenziale che deriverebbe
dall’investimento in capitale umano”.
Una possibile soluzione per evitare questo spreco di talenti
sarebbe di introdurre misure istituzionali che possano supportare le
donne di fronte al mondo del lavoro. ”Sarebbe opportuna una politica
di spesa pubblica a favore delle donne lavoratrici o una politica di
sgravi fiscali’, conclude Profeta. ”In presenza di un ambiente
istituzionale e culturale ideale, la mancata conoscenza del costo di
cura della prole, al momento della decisione sull’istruzione, non
sarebbe un problema, perché tutte le eventuali differenze di costo
effettivo rispetto a quello atteso sarebbero neutralizzate dalle
istituzioni”. Incentivare l’accesso al mercato del lavoro almeno di
tutte le donne istruite, valorizzandone pienamente i talenti e
l’investimento in capitale umano significherebbe, conclude lo studio,
collocare l’economia su un sentiero di crescita più elevato.