Donne e lavoro: quale sicurezza?

da Deltanews.

Di fronte alla crisi e alle modificazioni introdotte nel mondo del
lavoro è necessario dotarsi di nuove categorie interpretative, di nuove
rivendicazioni e forme di lotta.
In uno scenario caratterizzato dal peggioramento delle condizioni di
vita per tutti, ancora una volta il prezzo più alto
lo pagano le
donne

in termini di sovraccarico di lavoro, mancanza assoluta di tutele,
restringimento delle libertà di scelta. Le politiche messe in campo per
far fronte alla crisi ripropongono un sistema di garanzie che sono
rimaste centrate sul vecchio modello di lavoro a tempo determinato, che
riguardano ormai una minoranza delle lavoratrici e dei lavoratori invece
" pensare la contemporaneità significa progettare un radicale
cambiamento delle politiche sociali, costruire e attuare un nuovo
welfare a partire da un reddito di esistenza per tutte e tutti”.

Questa l’impostazione data all’iniziativa

“Donne e lavoro: quale
sicurezza?”
organizzata dal collettivo femminista Sommosse che
si è tenuta venerdì 6 novembre a Perugia presso il Commonslab.
Cristina Morini,
giornalista e scrittrice, e
Andrea Fumagalli
economista e vicepresidente del BIN Italia Network,
si sono prestati ad un dibattito molto partecipato che si è protratto
per ore.



Attraverso un’analisi argomentata delle condizioni di vita e di lavoro
delle donne, Cristina Morini ha sottolineato lo scarto tra
l’interpretazione del femminismo dell’emancipazione che guardava al
lavoro come strumento di costruzione di soggettività politica, di
fuoriuscita dall’isolamento e dalle mura domestiche e la
contemporaneità, pesantemente segnata dal passaggio dal contesto
produttivo fordista a quello postfordista,in cui gli elementi
immateriali pervadono sempre più l’attività lavorativa; alla creazione
di valore tramite la produzione materiale si aggiunge la creazione di
valore tramite la produzione di conoscenza.



In questo scenario le donne – come ha dimostrato la crescita
dell’occupazione femminile a partire dagli anni 90- ricoprono un peso
quantitativamente maggiore per i più elevati livelli d’ istruzione e le
capacità di ascolto, relazione e cura, che sono frutto dell’esperienza
storica femminile che deriva dalle attività realizzate nella sfera del
lavoro domestico,e tuttavia sebbene lavoratrici le donne non sono
affatto libere. Il quadro di una precarietà generalizzata mantiene
inalterata la dimensione sessuata e gerarchica dei rapporti di
produzione ed è così che il lavoro delle donne, più precario,
sottopagato e meno qualificato, non permette loro di raggiungere
l’autonomia economica. La dipendenza economica dovuta alle condizioni del lavoro precario, si
aggrava dentro il precipitare di una crisi strutturale, in cui le donne
sono e saranno espulse in massa dal mercato del lavoro: “si ritorna
dentro le mura domestiche, dimensione mai abbandonata realmente”
stigmatizza Morini.



Le donne sono costrette a permanere dentro strutture tradizionali di
dipendenza: dunque la famiglia, troppo spesso teatro di violenze e
pressoché unico ammortizzatore sociale nel quadro di uno stato sociale
inadeguato, perché ancorato al modello fordista, che per giunta è stato
fatto progressivamente a pezzi. Tutti gli aspetti riproduttivi, di cura
ricadono sulle donne o vengono canalizzati sulle donne migranti. Ed è
così che il tema del reddito assume centralità per il femminismo
contemporaneo, in quanto “strumento di autonomia dalla famiglia, di
contrattazione al rialzo nel mercato del lavoro, di autodeterminazione
delle donne, come perno di un welfare che tenga conto della dimensione
bioproduttiva ovvero delle risorse umane su cui si basa l’intera
organizzazione sociale”. I nuovi processi di accumulazione capitalista sussumono le conoscenze, i
corpi, le esperienze, le risorse di vita e per questo che è necessario,
sottolinea Morini, “ riattualizzare la questione del lavoro domestico
non retribuito delle donne dal momento che diventa paradigma delle molte
forme di lavoro nella contemporaneità, dentro uno sfruttamento che è
biopolitico”. Dalle conclusioni di Cristina Morini sia articola l’intervento di Andrea
Fumagalli che approfondisce le trasformazione del sistema produttivo e
lavorativo con l’avvento del capitalismo cognitivo.



La produzione della ricchezza vede interessate delle attività di vita
che solo trent’anni fa erano considerate improduttive, la base
capitalisticamente produttiva si è estesa intensificando lo
sfruttamento: si tratta, per dirla in termini marxiani, dell’estrazione
di un plus valore assoluto e intensivo. Il sistema fordista era strutturato su una serie di dicotomie: tempi di
lavoro/tempi di vita, lavoro manuale/lavoro intellettivo, dentro/fuori;
tutte categorie che oggi sfumano in un continuum biopolitico in cui è
l’intera vita che viene messa a produzione. Fine del lavoro di
rifkiniana memoria? No. Piuttosto si tratta del lavoro senza fine. I
processi produttivi sono sempre più legati alla capacità cognitiva,
ovvero a conoscenze, competenze, capacità relazionali, di comunicazione
e di gestione dei processi, che vengono soprattutto acquisite fuori dai
tempi di lavoro ed è proprio lo sfruttamento della capacità cognitiva a
rappresentare oggi la variabile degli incrementi di produttività.



Fumagalli per esemplificare l’argomentazione non risparmia esempi, come
quello della/o disoccupata/o che, in quanto tale, svolge comunque
attività produttiva perché consuma, svolge continui percorsi formativi,
si occupa del lavoro di riproduzione sociale. Tutto questo gran lavoro,
sottolinea, “ dal punto di vista del welfare e delle politiche
economiche viene espunto esattamente com’è accaduto e continua ad
accadere al lavoro domestico delle donne”. La precarietà è una condizione lavorativa ed esistenziale perché anche
chi non si trova in una condizione stabile è consapevole che tale
situazione potrebbe presto terminare. La moltitudine del lavoro è così
direttamente o psicologicamente precaria.



Il reddito d’esistenza (basic income) deve essere individuale,
incondizionato e universale per configurarsi come uno strumento per
uscire dal ricatto dell’esclusione, della preclusione delle aspettative
professionali e di vita, dalla gabbia dell’autocontrollo, dalla corsa al
ribasso del costo e della qualità del lavoro. Fumagalli ribadisce, volgendo alla conclusione del suo discorso, che il
reddito d’esistenza “é strumento di distribuzione della ricchezza che è
collettivamente prodotta, proprio come ieri è stato il salario”.



In sintesi reclamare reddito significa chiedere una remunerazione
adeguata alle forme del lavoro contemporaneo.



L’ultima battuta viene dedicata alle leggi regionali sul reddito
sociale, portando in causa il ddl umbro presentato da Rifondazione. Pur
ribadendo l’evidente parzialità dei provvedimenti regionali rispetto al
reddito incondizionato e universale -che può essere agito nel contesto
nazionale e soprattutto europeo- rappresentano tuttavia dei tasselli di
un discorso più articolato; si configurano come dei passi in avanti più
che altro dal punto di vista politico e culturale per aprire necessari
spazi di vertenzialità territoriale su questo tema.

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