Cosenza, la Marlane e i morti per cancro

Da repubblica

Ne sono morti quaranta di cancro. Altri sessanta hanno lo stesso male e
sono ancora vivi. Erano tutti operai, colleghi, per anni fianco a
fianco nell’azienda tessile Marlane, in provincia di Cosenza, a Praia a
Mare. La Procura di Paola ha concluso le indagini, durate anni, e ha
ipotizzato i reati di omicidio colposo dei dipendenti, la cui morte è
stata attribuita alle condizioni di lavoro, e inquinamento ambientale.  Sono stati anni difficili per i parenti delle vittime, difficili per
gli ex operai che dopo anni di lavoro in fabbrica combattono contro
tumori che hanno colpito la vescica, o i polmoni, l’utero o la
mammella. Le fasi delle indagini sono, per il momento, concluse, si
attende ora la decisione di rinvio a giudizio di una decina di
indagati. Ci sono voluti anni e anni di indagini, prima lungo un doppio percorso,
poi riportate in un unico fascicolo, per dimostrare la connessione tra
i decessi e l’uso di alcune sostanze usate nella fabbrica di coloranti
azoici, che contengono "ammine aromatiche", indicate da una ampia
letteratura scientifica come responsabili delle insorgenze tumorali. Tre procedimenti – il primo iscritto nel ’99, il secondo nel 2006 (con
sette indagati) e il terzo nel 2007 (con quattro indagati) – che il
Procuratore Capo Bruno Giordano ha fatto confluire in un unico
fascicolo. Più di mille operai hanno lavorato nell’azienda fondata
negli anni ’50 dal conte Rivetti. Si producevano tessuti di vario tipo,
per lo più divise militari. Fino alla metà degli anni Sessanta, nella
Marlane esistevano dei muri divisori tra i reparti.

Poi l’azienda passò dal Lanificio Maratea, nel 1969, all’Eni –
Lanerossi. In quell’anno i muri che dividevano i reparti furono
abbattuti e così la fabbrica diventò un unico ambiente di lavoro: la
tessitura e l’orditura, trasferite dal lanificio del vicino comune di
Maratea, vennero inserite tra la filatura e la tintoria, senza alcuna
divisione fisica. E così i fumi saturi di sostanze chimiche di
coloritura, provenienti dalla tintoria si espandevano ovunque. Una nube
permanente e densa sugli operai. A chi lavorava su certe macchine, alla fine della giornata veniva
donata una busta di latte per disintossicarsi. Era l’unica contromisura
proposta, che evidentemente non poteva bastare. I coloranti – quelli
che generalmente vengono contenuti nei bidoni con il simbolo del
teschio – venivano buttati a mano dagli operai in vasche aperte, dove
ribollivano riempiendo di fumi l’ambiente e le narici dei lavoratori. Senza aspiratori funzionanti. Gli operai tossivano e i loro fazzoletti
diventavano neri. E poi c’era l’amianto. L’azienda dice di non averlo
usato, ma chi ha lavorato nello stabilimento sa bene che i telai
avevano freni con le pastiglie d’amianto, che si consumavano spesso e
dalle quali usciva polvere respirata da tutti.

Nel corso del 1987 il gruppo tessile Lanerossi – già appartenente al
gruppo ENI, di cui faceva parte la Marlane di Praia a Mare – venne
ceduto alla Marzotto di Valdagno, che ne detiene ancora la proprietà.
Negli anni ’90 la svolta: arrivarono le vasche a chiusura, dove i
coloranti potevano ribollire senza riempire l’aria di vapori. Ma per
molti operai fu troppo tardi, dopo decenni di inalazioni tossiche. Nel
96 la tintoria è stata chiusa. Oggi l’azienda è vuota. Dismessa. "Le indagini sono praticamente chiuse – ha dichiarato il Procuratore
Capo di Paola, Bruno Giordano – recentemente abbiamo richiesto un
ultimo sequestro preventivo che il gip ha emesso relativo all’area
circostante lo stabilimento e credo che sia stato l’ultimo passo
istruttorio da parte nostra. Ora aspettiamo solo di chiudere formalmente le indagini". La Procura di
Paola ha infatti sequestrato il terreno circostante l’azienda: sotto,
tonnellate di rifiuti industriali. Sostanze che erano nocive ancora
prima di diventar rifiuti e che per questo avrebbero dovuto seguire
l’iter di smaltimento secondo legge. Ma evidentemente qualcuno ha
preferito seppellirli lì. Per questo, all’indagine iniziale sulle morti
bianche se ne è aggiunta una seconda: non si indaga solo sulle modalità
del ciclo di produzione ma anche sull’interramento dei rifiuti. Così
oggi la fabbrica, chiusa da cinque anni, non è sotto sequestro ma i
terreni circostanti sì.  Secondo la Procura, gli operai deceduti potrebbero essere più di
ottanta: non tutte le famiglie dei deceduti infatti hanno sporto
denuncia. Per questo il dottor Giordano ha costituito un gruppo di
lavoro per individuare tutte le eventuali parti offese. Per molti
operai, tuttavia, sarà dificilissimo avere giustizia: tanti sono i casi
caduti in prescrizione. Con la legge Cirielli, infatti, solo i decessi
a partire dagli anni ’90 possono rientrare nella vicenda giudiziaria in
corso.

Le prime morti risalgono agli inizi degli anni ’70. Tra i primi, nel
’73, due trentenni che lavoravano con gli acidi. E così via. Qualcuno
sostiene che i morti siano un centinaio, ma secondo l’azienda sarebbero
"solo" una cinquantina. Dato, questo, che rivelerebbe un rischio pari a
un caso su un totale di 1058 operai, nell’arco di 40 anni. Motivo per
cui l’azienda non vuole riconoscere il nesso di causalità tra le morti
e le sostanze lavorate in fabbrica per decenni. Non è dello stesso avviso il prete del paese, che ha celebrato più di
ottanta funerali di operai. E non lo sono neanche le vedove, gli orfani
di padri morti dopo una vita trascorsa in fabbrica. E poi c’è la storia
di un operaio ammalato di cancro, Luigi Pacchiano, che ha trovato il
coraggio di far causa alla Marlene – e che ha denunciato di aver
ricevuto minacce per la sua azione legale – ma a cui poi l’Inail ha
riconosciuto la malattia professionale ed ha ottenuto dal tribunale di
Paola un risarcimento di 220 mila euro. Ma le questioni sulla Marlene non finiscono qui. Ci si interroga sui
finanziamenti dall’Unione europea e dalla Regione, sulle storie di
precariato e cassa integrazione, sui sindacati e sui partiti e persino,
come si può leggere nei rapporti del Ministero della Sanità, sul mare
non balneabile di fronte alla fabbrica, nonostante ci fosse un
depuratore.

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