Giuseppe Florio “la Gazzetta del Mezzogiorno” del 25/09/09
La data è quella del prossimo 30 settembre. Ovvero, tre anni, cinque mesi e dodici giorni dopo la tragica scomparsa di Antonino Mingolla. L’appuntamento è quello dell’udienza preliminare del processo penale per accertare le responsabilità dell’incidente mortale occorsogli negli impianti dell’Ilva di Taranto. Antonino era dipendente della CMT, ditta appaltatrice per lavori di manutenzione all’interno del cantiere Ilva. Nel pomeriggio del 18 aprile 2006, durante la sostituzione di alcune valvole sul condotto principale del gas “afo”, utilizzato come combustibile per fondere l’acciaio, Antonino morì avvelenato a 46 anni da esalazioni circa venti volte superiori il livello tollerabile. Era, a detta di chi lavorava con lui, «esperto, attento, prudente». Ilva e CMT hanno violato le prescrizioni sulla Sicurezza? Questa la piattaforma del processo, domanda su cui si fronteggeranno un’accusa coraggiosa (il penalista fasanese Stefano Palmisano) e una difesa solitamente impietosa (l’Ilva non ha mai presentato le sue condoglianze ai familiari delle numerose vittime cadute nel corso degli anni, neppure per telegramma. La CMT ha dichiarato fallimento nel 2007. Portavoce di entrambe le aziende hanno in qualche modo dichiarato che la morte di Antonino è avvenuta per sua responsabilità). «Sono consapevole che nessuno sconterà l’eventuale pena grazie ai benefici di cui godranno gli imputati, primo fra tutti quello dell’indulto»: esordisce con rassegnata fierezza Franca Caliolo, vedova di Antonino, carattere di ferro dietro a un viso di velluto. Davanti a sé, gli anni che avrebbe dovuto condividere con una persona – marito, padre, figlio, sodale – molto speciale: «Era una persona essenziale, dotata di grande capacità di amare quanti gli stavano intorno e con un acuto senso di lealtà: un amico ideale», e la definizione è la stessa che avrebbe dato chiunque tra quelli che lo avevano conosciuto.
«Naturalmente nessuna condanna restituirebbe la vita a mio marito», precisa Franca. «Ma a noi familiari resta un desiderio di giustizia da appagare». Tra le pieghe del dolore, l’attesa di un passo formale della Giustizia italiana: «Tempi nella norma, mi è stato detto in tribunale, ma che così non possono essere percepiti da chi ha subìto una tale perdita». Lo strazio non allenta: «L’elaborazione di un lutto non è mai facile se riguarda una persona che si amava molto ma, quando le cause della morte portano ad affrontare un processo, allora tutto diventa più difficile. Ciò perché infinite volte se ne devono ripercorrere le circostanze, riesaminare i particolari. E quanto più a lungo il processo si trascina, tanto più è difficile riappacificare i ricordi».
Franca non è sola: oltre ad una famiglia unita e composta, oltre ai cento e mille amici che le sono stati vicino, oltre a movimenti e associazioni che hanno raccolto e rilanciato l’istanza di giustizia nel nome di Antonino, ha due figli bellissimi. Chi ricorda Gabriele e Roberta, 18 e 16 anni, nel giorno dei funerali, potrà conservare il prezioso cammeo di due piccoli principi che si fanno carico di un dolore più grande di loro: con stoico decoro, impensabile per due adolescenti trafitti da un lutto così ingiusto. «I ragazzi gli erano molto legati, è un’assenza che non si colma mai e che si fa sentire particolarmente nelle ricorrenze». Franca combatte: «Da un lato porto la mia testimonianza per sensibilizzare l’opinione pubblica; dall’altro partecipo all’azione della Rete sulla Sicurezza, coordinamento nazionale che riunisce associazioni di familiari, sindacali, e soggetti vari che si impegnano a sostenere questi temi in vari modi». Ha un solo timore: che «l’impunità o il ribaltamento delle responsabilità legittimi i datori di lavoro a considerare i lavoratori come “strumenti” per il raggiungimento dei loro interessi economici».